“POESIA DEL PASSAGGIO”
ARTISTA
MARISA SETTEMBRINI
CURATORE
Prof. Carlo Franza, Storico dell’Arte e Critico del quotidiano “Il Giornale” fondato da I. Montanelli
PLUS FLORENCE – SALONE DELLE REGOLE
Via Santa Caterina d’Alessandria, 15 - 50136 Firenze
Dal 29 maggio 2021 al 19 novembre 2021
APERTURA
Sabato 29 maggio 2021, ore 18.00
In uno spazio ove alberga già il progetto “Scenari”, a Firenze, è ospitata la mostra “Poesia del passaggio” con opere dell'artista Marisa Settembrini. L'esposizione, ideata e curata dall’illustre Storico dell’Arte Moderna e Contemporanea Prof. Carlo Franza, figura di piano internazionale, è una sorta di termometro della spettacolarità e
della storicità dell’arte nuova, di un'arte che si fa veicolo di novelle idee scolpite nella cultura occidentale, di un'arte capace di rigenerare mondi e uomini, e si fa anche bussola in un mare di proposizioni della cultura e delle arti internazionali.
Scrive Carlo Franza nel testo: “L’arte di Marisa Settembrini persegue la ricerca di un ideale millenario che la nostra civiltà ha sempre considerato una delle sue espressioni più alte, la bellezza tradotta da una certa concezione del corpo umano. Da Fidia e Prassitele a Rodin, passando da Michelangelo e Canova, eppoi verso taluni contemporanei come Mimmo Rotella e Jacques Villeglè, la sua pittura esprime, tramite la perfezione dell’architettura umana, la presenza del mistero. Le sue opere si snodano attorno alla riconquista di una forma di bellezza considerata desueta da taluni modernisti. Fin dai suoi esordi, negli anni Settanta, il lavoro della Settembrini si è mosso ai margini di correnti dominanti quale l’arte concettuale, l’arte minimalista o i diversi approcci dell’arte astratta. Ella può essere associata da una parte ai Nouveaux realistes per una affinità stilistica o generazionale per via degli strappi cartacei, i decollages, dall’altra alla Poesia Visiva o meglio alla Poesia Visuale. Poi quando negli
anni Ottanta abbiamo assistito a un ritorno alla figurazione, alla rivalorizzazione del passato e della mitologia,
scopriamo che la sua opera sfugge a precise tendenze e, per contrasto, rivela tutta la sua specificità. A prima vista l’opera sorprende per il suo sviluppo organico, per la sua apparente immobilità, per la sua costante epurazione, seminando nuove basi, aprendo nuove piste. Ecco spingere l’arbitrarietà del segno al punto di dissoluzione segnalato da Jameson, e cioè al punto in cui i significanti, lettere, numeri e così via, sono diventati letterali “libertà dal fardello dei loro significati”. La Settembrini attinge dal mondo classico e dal mondo contemporaneo i valori che insuffla nelle sue creazioni. La figura umana, o meglio quelle parti di volto e di sguardo, strappate, ritagliate, vere
finestre visive, ne escono altamente valorizzate poiché portano in sé l’impronta dello sforzo per superarsi. Il suo sguardo, rispetto al passato, non è nostalgico bensì basato sulla scommessa di insufflare l’ideale di bellezza nell’ambiente quotidiano. La sua ricerca interroga l’atteggiamento modernista, il nostro rapporto con le fonti della nostra civiltà, il ponte che ci ricollega con il fondo comune dell’identità occidentale. La Settembrini pone in scena una teoria estetica ed etica del volto, ben ricordando le riflessioni di Emmanuel Lévinas. Di fronte al volto altrui l’io
comprende l’alterità e la trascendenza dell’altra persona, in quanto dietro a quel volto si nasconde la vita intera di un essere umano che ha provato sensazioni, emozioni, che possiede ricordi e aspettative e sogni verso il futuro. E’ acclarato che il volto dimostra la sua grande evocatività filosofica e vedremo anche artistico-letteraria soprattutto
perché si tratta della parte del nostro corpo più personale e più differente da individuo ad individuo. Esso viene
scelto quale mediatore tra l’anima e il corpo. Nel volto non vi sono tracce del nostro vissuto, ma idealmente il volto
è colui che ci fa comprendere i valori del rispetto di un’individualità differente dalla nostra. Tutto appartiene a una partizione delle voci “volto” e “sguardo”, voci, termini, che rimandano a quanto diceva G.A. Becquer: “L’anima. può parlare con gli occhi e baciare con lo sguardo”. Il ruolo esistenziale del volto, la magia di esso, assume del tutto una dimensione che coinvolge il valore del ricordo che è stato caro a Marcel Proust come al poeta italiano Eugenio Montale del “Non recidere forbice quel volto”; il volto della donna amata, Clizia, una sorta di donna angelo venuta in terra per fornire un segno di una possibile donazione di senso al mondo. Così avvicinarsi al passato non può essere che un atto mutilato e frammentario. Queste piccole “finestre” che ricreano la superficie dell’opera sono decorazioni o forse i frammenti di un’altra opera? Ogni frammento rimanda a un’opera che ci sfugge nella sua totalità ma la cui probabile esistenza ci viene indicata dall’immaginario. In questo modo ogni frammento evoca altro e così via, all’infinito. L’uso della frammentazione e del collage è una pratica moderna, porta verosimilmente ad assemblaggi insoliti. Il gusto di fabbricare storie ci ricorda i romantici e la loro passione per le rovine, per le tracce delle intemperie e i segni del tempo trascorso. Ancora una volta ciò che è in ballo è il nostro rapporto sempre
mutilato con il passato e la sua abilità di artefice. Il frammento rivela la mano e l’abilità dell’artista, non il talento
aleatorio del tempo. “Con modernità intendo l’effimero, il fugace e il contingente” scriveva Charles Baudelaire nel 1863, “la metà dell’arte di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”.
Nicoletta Curradi
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